Dunque, non si tratterebbe di una vera conversione spirituale, ma di un compromesso motivato dall’amore e condizionato da pressioni culturali.
Il compromesso sta certamente alla base di una convivenza pacifica, ma - a mio parere - solo ed esclusivamente se la nuova situazione a cui una delle due parti sta cercando di adattarsi, ha per entrambi i coniugi un'importanza inferiore rispetto a quella che dovrebbe avere la loro relazione. In psicologia relazionale si chiama "priorità condivisa": ovvero, la coppia funziona se i due mettono loro stessi al di sopra delle singole appartenenze, convinzioni o regole esterne.
Se invece uno dei due impone una condizione che per sé è imprescindibile ma per l’altro è insostenibile, allora il rapporto rischia di diventare asimmetrico e potenzialmente dannoso.
Quando il compromesso non va a buon fine, fallisce generando un ambiente negativo per la coppia, è necessario che la coppia stessa rinegozi con empatia le condizioni, o addirittura riponga qualsivoglia pretesa sull'adempimento del compromesso. Ciò implica riflettere sul peso dell’adattamento unilaterale, su come esso abbia eroso la stabilità emotiva del partner coinvolto, e infine valutare con onestà se il cambiamento richiesto (in questo caso la conversione religiosa) sia davvero indispensabile alla tenuta del matrimonio.
Considerando che nell'Islam la priorità assoluta viene attribuita alla fede, e non al benessere individuale o alla flessibilità nella relazione, poiché un musulmano o una musulmana non può anteporre il coniuge a Dio, la mia ipotetica risposta non potrebbe che essere un sonoro no.