Allora, badateci: questo sarà un argomento su cui i dotti filosofi torneranno a disquisire in futuro. Ve la faccio breve — ne ho già accennato qualche domanda fa, ma vale la pena ribadirlo: da quando esiste GPT, ogni disputa o confronto — e ricordiamoci che il confronto è la cifra stessa della filosofia, basti pensare a Socrate — è diventato straordinariamente privo di potenzialità. Basta digitare una domanda e inviarla al cervellone artificiale perché anche la questione più intricata venga risolta in pochi secondi. Per il liberista medio, tutto ciò rappresenta il trionfo del Logos, la più alta realizzazione del modello illuminista mai conosciuta. Per il filosofo, invece, si tratta della crisi del Logos: una crisi le cui radici affondano nella modernità, e che oggi subisce uno smacco ulteriore — forse addirittura definitivo — per mano della tecnologia contemporanea. Dove, dunque, l’intelligenza artificiale non può mettere bocca? In quale campo rimane muta? Presto detto: nel campo delle esperienze personali. La mia storia particolare — come la tua — è l’unica cosa di cui l’algoritmo non possa essere davvero al corrente. Se gli chiedi di raccontarti il tuo vissuto, le tue emozioni, e soprattutto le tue sensazioni, ti risponderà che non lo sa. A meno che la richiesta non sia estremamente dettagliata, tanto da attivare un calcolo probabilistico. Ma anche quel calcolo, nella migliore delle ipotesi, ricostruirà solo in parte il bagaglio esperienziale di cui siamo dotati. Questo perché la nostra storia personale, o la nostra interiorità solipsistica, è attraversata da una tale immensità di variabili che nemmeno il genio potrà mai ponderare. Se gli chiedi di raccontarti il tuo flusso interiore, manifesterà tutta la sua impotenza, chiedendoti ulteriori dettagli per poi procedere — inevitabilmente — per approssimazioni. La nostra privatà, infatti, non è un dato. E non può essere letta. Così, il campo della dialettica, a causa delle IA, sembra essersi ristretto alla sola singolarità particolaristica. In altre parole, l’unica questione che davvero sfugge al controllo onnipervasivo dell’intelligenza artificiale è quella privata. È ormai divenuto superfluo discutere di fisica, di ontologia o di composizioni chimiche: esiste il genio, la cui conoscenza dei dati ufficiali si espande ad libitum. Ogni questione esterna alla sfera privata è, di fatto, già risolta; ogni speculazione si rivela infruttuosa, e ogni deduzione scientifica sembra già compresa nel capitale informativo posseduto dall’IA. Questa situazione ha un’implicazione storica cruciale: l’uomo si è finalmente circondato di sé stesso, affermando il predominio del soggettivismo e, quindi, dello psicologismo su ogni altra forma di sapere. L’uomo del ventunesimo secolo è un uomo che non sente più il bisogno di esprimersi, né di spendersi in astrazioni: tutto è già automatizzato. Wittgenstein fu, in un certo senso, il precursore di questa visione. E come già avviene nel mondo del lavoro, anch’esso a rischio in molti settori per via dell’IA, anche il dominio della spiritualità umana sta conoscendo una progressiva spoliazione innescata dalle macchine. Ne procederà un’umanità sempre meno incline a scoprire, a ragionare, a riflettere. Un’umanità sempre più ripiegata su sé stessa, incentrata — quasi in modo autistico — sulla propria vicenda individuale. Ne verrà fuori un uomo sempre più interessato a parlare di sé, in modo autoreferenziale, piuttosto che dell’ecosistema, della collettività, o di qualsiasi altra questione estrinsecamente posta. Il restringimento del campo argomentativo opera precise ripercussioni sull'etico.