Viviamo in tempi dove tutto viene accelerato, compresso, semplificato. Anche la bellezza. Soprattutto quella.
E uno degli esempi più emblematici di questo scivolamento è ciò che è accaduto con il lancio della nuova capacità di generazione immagini dell'IA: per promuoverla, non hanno trovato di meglio che confrontarla con un capolavoro vero, Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki, un film che ha richiesto anni di lavoro artigianale, meticoloso, poetico. Una vita intera, per certi versi. E cosa fanno? Lo mettono accanto a un'immagine generata in pochi secondi. "Guarda, l'IA può fare lo stesso." Ma non è così. Non sarà mai così.
Il fastidio, però, non nasce solo dal paragone superficiale. La ferita più profonda è vedere come questa trovata abbia fatto presa sulle menti più pigre, più superficiali. Invece di esplorare infinite possibilità espressive, cosa hanno fatto in massa? Hanno cercato solo quello: l'effetto Ghibli. Prompt dopo prompt, tutti a generare imitazioni, cloni, sogni in provetta. Senza capire nulla di cosa stessero facendo, senza rispetto, senza consapevolezza. Una moda vuota, figlia di un marketing furbo e della voglia di risultati rapidi.
Ancora più grave, però, è il fatto che anche nei podcast di sedicenti esperti di anime, e persino tra alcuni animatori, si sentano discorsi che mostrano una profonda miopia culturale e tecnica. Da una parte, chi banalizza il lavoro di Miyazaki dicendo che l'IA "potrebbe sostituirlo"; dall'altra, chi (per paura di perdere il posto) si rifugia in un silenzio o in una tiepida accettazione. Ma serve dire le cose come stanno: non è solo questione di competenza tecnica. È questione di visione, di umanità.
L'animazione tradizionale, come quella dello Studio Ghibli, utilizza disegni fatti a mano su fogli traslucidi (acetati), che vengono colorati e fotografati uno per uno su fondali dipinti a mano. Ogni frame passa per una vera macchina da presa, sotto luci fisiche. Questo processo, pur laborioso, produce risultati ricchi di imperfezioni vive, con giochi di luce autentici, vibrazioni di colore che derivano dalla materia stessa (la carta, la pittura, l'aria nella stanza, l'inclinazione della luce, ecc.).
L'animazione digitale, invece, lavora tutto tramite software: colori piatti, luci simulate, ombre calcolate matematicamente. Le texture, le trasparenze e i riflessi sono frutto di algoritmi, non di pigmento e luce reale. Anche quando tenta di imitare lo stile tradizionale, manca sempre qualcosa: l'imprevedibilità della realtà, quell'imperfezione che dà calore. I fondali, spesso, sono veri quadri dipinti a mano, con acquerello, tempera, matita. Ogni frame veniva fotografato con una vera telecamera sotto una luce vera. E questo cambia tutto.
La luce reale colpisce la materia, genera riflessi imprevedibili, trasparenze, imperfezioni che rendono vivo un colore. Ma qui, oltre a questo, c'è il tocco del vero artista, che vuole farti emozionare e non gliene frega nulla se i toni sono troppo accesi o sbagliati. La sua sensibilità lo guida a metterli dove serve, per creare quella che si chiama atmosfera. L'azzurro del cielo in una scena di Kiki - Consegne a domicilio (1989), o il verde muschiato della foresta in Princess Mononoke (1997), non sono solo scelte cromatiche: sono emozioni filtrate attraverso la luce naturale e la sensibilità umana. Non c'è software che possa emulare davvero quella vibrazione. Il digitale calcola, ma non sente. Simula, ma non tocca.
Prima di tutto: la regia, la composizione, il ritmo. Le immagini generate hanno tutte le stesse espressioni, la stessa struttura visiva, lo stesso vuoto. L'algoritmo non capisce la tensione narrativa, non ha senso del tempo, non ha intenzione. È un generatore di superficie. Là dove Miyazaki sceglie di lasciare una finestra aperta per sei secondi, o far camminare un personaggio senza dialoghi, c'è un mondo di scelta poetica. Qui, invece, è solo rumore levigato.
In un'opera come quelle dello Studio Ghibli, il colore è legato all'umore, al ritmo interno della scena, è stato pensato, stratificato, elaborato. Nell'immagine IA invece tutto è lucido, omogeneo, privo di errori. E proprio per questo, privo di anima.
Lo stesso vale per la scrittura. È ingenuo pensare che l'intelligenza artificiale possa scrivere qualcosa di nuovo in senso pieno. Può generare un testo, ma non un'esperienza. Non un sentimento autentico.
Pensiamo a Dante: non ha scritto la Divina Commedia solo perché era un poeta dotto. L'ha scritta perché era un uomo immerso nel proprio tempo, sensibile ai dolori del popolo, spiritualmente coinvolto nelle tensioni morali e civili del suo secolo.
Il poeta non è solo un artigiano della parola: è uno che sente, che vive, e che rielabora ciò che attraversa per poi restituirlo con significato. La scrittura, come l’animazione, nasce da uno sguardo umano. Senza questo sguardo, resta solo un insieme di frasi ben composte ma vuote.
La scrittura, come l’animazione, è il frutto di uno sguardo umano. Anche il miglior testo generato da IA ha bisogno di una visione che gli dia senso. Senza l’umano, la macchina è cieca. E pensare che basti dire “scrivimelo tu, IA” per ottenere un capolavoro è come credere che si possa comporre una sinfonia premendo il tasto giusto
Non si tratta di nostalgia o feticismo del passato. Si tratta di capire che l'arte è umana. Che richiede tempo, tatto, intenzione. E che ridurla a un effetto da replicare in catena, senza comprenderla, è come usare un sintetizzatore per imitare un'orchestra senza sapere cosa sia un contrappunto.
L'intelligenza artificiale può essere uno strumento, anche potente. Ma senza uno sguardo umano, senza una regia, senza un cuore, sarà sempre e solo superficie. E quando prende il posto di chi impiega anni a costruire un'opera sincera, rischia non solo di appiattire l'immaginario, ma di avvilire chi ama davvero ciò che l'arte può fare.
Il problema non è la tecnologia. È l'ignoranza estetica di chi la usa. È la fretta. È la moda. È la paura. E forse anche un pizzico di presunzione: quella di pensare che il tempo, l'emozione, la passione e l’anima possano essere sostituiti da un prompt.