Giulio_M
Dalla premessa alla conclusione, mi sembra un disastro argomentativo. Parti parlando degli “animali” come se fosse una categoria omogenea, poi ti concentri sui cani: e va bene, ma li tratti come se fossero la summa biologica di ogni altra specie. Tutto troppo generalizzato, senza alcuna distinzione né di contesto né di individuo.
Dici che l’uomo ha una capacità “innata” di astrazione teorica, mentre gli animali no. Ma allora ti chiedo: tutti gli umani ce l’hanno? È un tratto veramente “a priori”? Perché ci sono esseri umani che, messi davanti a un orso, pensano bene di avvicinarsi per fargli un video. Se davvero avessero sviluppato l’astrazione teorica, forse avrebbero dedotto che quell’orso può aprirli in due con una sola zampata. E invece no: si sono adattati a uno schema sociale (“filmo = ottengo attenzione”) senza porsi domande. Dov’è, allora, questa mitologica capacità riflessiva dell’homo sapiens?
E prendiamo anche l’esperimento della “Waiting Room”: uno entra, sente un beep, vede gli altri alzarsi, e si alza anche lui; senza sapere il motivo. Lo fa per imitazione, per non disturbare la norma, per conformismo automatico. Ma non per riflessione. Dov’è la sua struttura a priori che gli fa chiedere “perché lo sto facendo”? Non c’è. Come nei cani, come in molti animali: apprende e replica uno schema.
Il punto è che la mente (umana e animale) non è bianca o nera, razionale o istintiva. È un gradiente. Ci sono cani che ragionano più di certi umani, e umani che si comportano come branchi. Perciò, se vogliamo parlare di mente, iniziamo almeno a distinguere tra individui, contesti e gradi di elaborazione. Altrimenti facciamo solo mitologia umanocentrica.