Un film con ottima recitazione, buon ritmo, un thriller che funziona. Ma soprattutto con una componente umana potente, una denuncia chiara contro uno degli orrori più inaccettabili: il traffico di bambini.
Ed è proprio per questo che fa ancora più schifo vedere come sia stato trattato. La Disney, che ha costruito un impero vendendo sogni ai bambini, è stata la prima a voltargli le spalle, bloccandone la distribuzione. Sei anni è rimasto nel limbo. Sei anni di silenzio. Solo grazie alla testardaggine di pochi e a un sistema alternativo di promozione è riuscito a uscire.
Questo ci dice tutto su come funziona oggi la cultura.
Viviamo in una società superficiale, dove contano solo apparenza: ego, sesso, soldi, successo istantaneo e narcisismo da quattro soldi. L’individualismo regna, e il cinema riflette perfettamente questo vuoto: estetica fine a se stessa, immagini patinate, contenuti inesistenti. Basta una regia “stilosa” e già si grida al capolavoro.
Il resto non interessa. Profondità? Dolore vero? Denuncia? Umanità? Troppo scomodo.
E allora ci si specchia in prodotti “facili”, comodi.
Come The Whale, che vince l’Oscar: un grassone depresso, gay, distrutto… perfetto per rispecchiare la mediocrità impotente di un’America in sedia a rotelle, emotiva ma passiva.
Ecco cos’è l’arte oggi: un contenitore di autocommiserazione.
E la gente lo chiama capolavoro solo perché gli somiglia un po’.
Il film, certo, ha anche i suoi limiti.
Non fa nomi, non punta il dito in modo diretto. Ti fa solo intravedere il marciume del sistema, ma quello dei poveri, dei trafficanti colombiani, non quello delle élite occidentali.
E forse è proprio questo il motivo per cui non ci tocca davvero: perché non colpisce l’uomo bianco, l’europeo benestante.
Eppure certe schifezze accadono anche qui, nel nostro mondo “civile”.
A fine febbraio 2025, le autorità bosniache hanno arrestato otto persone coinvolte in un traffico di esseri umani, dopo aver scoperto 31 bambini rinchiusi in una casa a Brčko, nel nord della Bosnia. Tutti sotto i 12 anni, trovati in condizioni precarie. Presi in carico dalla Croce Rossa. Le indagini sono ancora in corso, e chissà quanti altri casi simili si consumano nel silenzio, soprattutto nelle regioni martoriate dalle guerre recenti.
Ne avevo parlato anche in un altro post, a proposito di un caso analogo in Israele.
Ma, giustamente, notizie del genere non finiscono mai in prima pagina.
Ed è proprio questo il volto della società di oggi: indifferente ai veri orrori, troppo impegnata a commuoversi per le tragedie addomesticate, da fiction, o per le lacrime facili.
Una cosa che ho apprezzato del film è che tratta l’uomo occidentale per quello che è: un povero idiota.
Sì, perché finché la sofferenza non lo tocca da vicino, non la sente davvero.
E questo il film lo mostra bene.
Il protagonista ci trasmette fin da subito il peso emotivo di quello che fa.
Diventa anche didascalico, sì, ma con intenzione: ci fa sentire il suo dolore, la sua stanchezza nel vivere ogni giorno immerso in certi orrori.
Lo fa attraverso la famiglia i figli, la moglie, i dialoghi, lo fa con le domande ripetute, come: “Perché lo fai?”
Non è una battuta casuale, ma una domanda che torna, perché il film vuole fartelo capire: dietro ci sono ferite vere.
Anche l’ex criminale che aiuta nelle indagini parla del suo pentimento, e non è l’unico ad avere quei conflitti interiori.
Perché questa nostra presunta civiltà, in realtà, è una bolgia infernale.
E ogni scelta ha un peso.
Ma il peso più grande, quello che uccide più di tutto, è l’indifferenza.