Secondo la dottrina dei motiva credibilitatis, la fede può poggiare su ragioni credibili, pur senza raggiungere l’evidenza assoluta della dimostrazione razionale.
San Tommaso d'Aquino sostiene che la fede non si fonda sull’evidenza immediata dell’oggetto creduto, ma sulla sua credibilità intrinseca: si crede non perché tutto sia dimostrato, ma perché esistono motivi validi per fidarsi.
In quest’ottica, l’esistenza di Dio può essere ritenuta “ragionevole” anche attraverso esperienze interiori, intuizioni spirituali o rivelazioni personali. Sebbene queste modalità conoscitive non costituiscano deduzioni razionali nel senso stretto, non devono essere né sminuite né ignorate. Per chi le vive, infatti, tali realtà sono estremamente persuasive, e possono avere un impatto straordinario sul piano esistenziale e spirituale, giustificando legittimamente l’adesione alla fede.
Tuttavia, l'affidamento a motivazioni personali solleva una questione critica: la loro soggettività ne limita la validità condivisibile. Ciò che per un individuo rappresenta una ragione sufficientemente valida per credere, potrebbe risultare inaccessibile e incomprensibile per altri. Così, la fede si lega al vissuto individuale, diventa suscettibile a interpretazioni divergenti, ostacolando la costruzione di un linguaggio condiviso e di una comprensione comune.
Di conseguenza, la credibilità personale tende a frammentarsi tra coscienze diverse, trasformando la fede in un’esperienza privata, poco comunicabile. Senza un fondamento condiviso, essa rischia di rimanere confinata nella sfera intima, priva di potenziale per costruire una solida comunione tra gli esseri umani.
Resta allora aperta la domanda:
Può la fede personale superare il limite della sua soggettività e diventare accessibile a molti?
Oppure ogni fede resta, per natura, un'esperienza unica e irripetibile?