Gesù ha conferito a Pietro un primato sopra gli altri apostoli: Fu infatti l'apostolo Pietro a ricevere dal Padre una speciale rivelazione (Matteo 16,15-17), e a lui furono consegnate da Gesù le chiavi del regno dei cieli (Matteo 16,19). Le chiavi date a Pietro sono un affidamento di autorità e di governo temporale della Chiesa. Nella cerchia dei dodici, Pietro è sempre menzionato al primo posto (Matteo 17,1; 26,37; Marco 3,16; 5,37; 9,2; 13,3; 14,33; Luca 6,14; 8,51; 9,28; 22,8; Giovanni 20,2-3; 21,2; Atti 1,13; 3,1-3), addirittura col qualificativo di « primo » (Matteo 10,2), chiaro riferimento al suo primato. A volte la Scrittura menziona per nome solo Pietro, mentre gli altri apostoli vengono menzionati come « suoi compagni » (Marco 16,7; Luca 9,32). Gesù ha dato a Pietro l'autorità di confermare i cristiani (Luca 22,31-32), e sempre a lui comanda di pascere agnelli e pecore (Giovanni 21,15-17). Gli agnelli sono i popoli, mentre le pecore – madri per gli agnelli – sono i vescovi, i quali generano i popoli in Cristo. Tornando al Padre, Gesù affida le sue pecore alla custodia e alle cure di Pietro, senza però rinunciare alla proprietà su di esse (Giovanni 10,11.14.29; 17,6.12). Già nell'Antico Testamento Yahweh, supremo pastore d'Israele (Salmi 32,1; Isaia 40,1; Geremia 31,10), affida il suo gregge alle cure di quelli che egli si era scelto (2Samuele 7,7; Salmi 78,70-72; Ezechiele 34,10). Anche Paolo riconosce il primato conferito a Pietro, e infatti quando tornò dal suo ritiro in Arabia, immediatamente si recò a Gerusalemme per consultare Pietro (Galati 1,18), che egli chiama quasi sempre « Cefa » (1Corinzi 1,12; 3,22; 15,5; Galati 1,18; 2,9.11.14). Paolo andò a consultare Pietro poiché quest'ultimo è un punto di riferimento per la Chiesa. Gesù pagò la tassa al tempio per lui e per Pietro soltanto (Matteo 17,24-27). Quando stava presso il lago di Genèsaret, Gesù vide due barche e scelse di salire su quella di Pietro per ammaestrare le folle (Luca 5,1-3). Fu a Pietro per primo che Gesù lavò i piedi (Giovanni 13,16). Quando Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, quest'ultimo arrivò prima, ma non entrò, aspettò che entrasse prima Pietro, e poi entrò anche lui (Giovanni 20,4-8). Ciò va compreso in relazione alla funzione che Gesù attribuirà a Pietro (Giovanni 21,15-17). E Pietro che deve verificare all'interno lo stato delle cose. Quando Pietro disse: « Io vado a pescare », gli altri apostoli vollero seguirlo (Giovanni 21,3). Fu Pietro ad assumere nel cenacolo, in mezzo a circa centoventi fratelli, la direzione, proponendo l’elezione di un nuovo apostolo (Atti 1,15-22). Fu Pietro a parlare, nel giorno della pentecoste, a nome di tutti gli altri apostoli (Atti 2,14-36), e fu sempre lui a compiere il primo miracolo a conferma della fede (Atti 3,1-11). Fu Pietro a ricevere da Dio la visione di una grande tovaglia che discese dal cielo, piena di ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo, che di significato ha che non solo i giudei, ma anche i pagani devono essere accolti nella Chiesa (Atti 10-11).
Pietro fu per la prima volta a Roma intorno al 42, al principio del regno di Claudio (Storia Ecclesiastica II 14, 6) – probabilmente subito dopo la sua miracolosa liberazione dal carcere di Gerusalemme (Atti 12,17) – e fu vescovo della Chiesa di Roma per 25 anni, secondo quanto riporta Girolamo (Gli uomini illustri 1,1). Riportando una testimonianza di Papia vescovo di Ierapoli (70-130), lo scrittore cristiano Eusebio di Cesarea (265-340) dice che l'apostolo Pietro nomina Marco nella sua lettera che compose a Roma, città da lui stesso indicata (1Pietro 5,8), chiamandola in senso figurato Babilonia (Storia Ecclesiastica II, 15,2). Infatti nell’ambiente giudaico-cristiano, durante le persecuzioni, il nome Babilonia veniva utilizzato in senso figurato per indicare Roma. Nell'Apocalisse di Giovanni, per esempio, viene fatto uso del nome Babilonia in senso figurato, in riferimento all'antica città imperiale che fu fondata su sette alture, ossia Roma: Babilonia la Grande è seduta su sette colli (Apocalisse 17,5.9). Inoltre Giovanni scrive che questa Babilonia era ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse 17,6), e ciò fa pensare proprio alla Roma imperiale – divenuta simbolo del male – del tempo di Giovanni, la quale perseguitava i cristiani. Eusebio riporta inoltre – sempre secondo la testimonianza di Papia – che il vangelo scritto da Marco è una raccolta della predicazione di Pietro a Roma (Storia Ecclesiastica II, 15,1). Egli riporta anche la testimonianza di Clemente di Alessandria (150-215) il quale, allo stesso modo, afferma che quando Pietro predicò pubblicamente la dottrina a Roma e grazie allo Spirito Santo annunciò il vangelo, i presenti, che erano molti, pregarono Marco di mettere per iscritto le sue parole, giacché da molto tempo lo seguiva e ricordava ciò che diceva; ed egli lo fece, e trasmise il vangelo a coloro che glielo avevano chiesto (Storia Ecclesiastica VI, 14, 6). A Roma c'era una comunità ebraica di liberti, e certamente Pietro predicò a loro il vangelo. L'apostolo però non si stabilì a Roma senza mai muoversi di là. Roma è la sede apostolica, non la dimora. Infatti nel 48 Pietro lasciò Roma e partì per Antiochia, dove si scontrò con Paolo (Galati 2,11-14) a causa di certe questioni che portarono alla convocazione del Concilio di Gerusalemme e durante il quale furono risolte (Atti 15,1-35). Alcuni anni dopo fece ritorno a Roma, subendo il martirio nel 67. Nel 110, durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, Ignazio vescovo di Antiochia scrive una lettera ai Romani nella quale si legge: « Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi, io a tutt'ora uno schiavo » (Romani IV, 3). L'apostolo Pietro non scrisse alcuna lettera alla Chiesa di Roma, e ciò significa che egli aveva rapporti diretti coi romani e di persona impartiva loro dei comandi, altrimenti la lettera di Ignazio non avrebbe senso. Lo scrittore e teologo cristiano Origene di Alessandria (185-254), ripreso da Eusebio di Cesarea, afferma: « Pietro sembra invece che predicò ai giudei della diaspora nel Ponto, in Galazia, in Bitinia, in Cappadocia e in Asia; giunto infine a Roma vi fu crocifisso con la testa all'ingiù, poiché egli stesso chiese di subire tale martirio » (Storia Ecclesiastica III, 1, 2). Mentre Tertulliano (155-230) afferma che « Pietro battezzava nel Tevere » (Il Battesimo IV, 3). Nei suoi scritti Eusebio di Cesarea conserva una parte della lettera scritta nel II secolo da Diogini vescovo di Corinto: « Con una tale ammonizione voi [romani] avete fuso le piantagioni di Roma e di Corinto, fatte da Pietro e da Paolo, giacché entrambi insegnarono insieme nella nostra Corinto e noi ne siamo i frutti, e ugualmente, dopo aver insegnato insieme anche in Italia, subirono il martirio nello stesso tempo » (Storia Ecclesiastica II, 25, 8). Eusebio riporta anche la seguente dichiarazione: « Durante il regno di Nerone, Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dai nomi di Pietro e di Paolo, che sono ancor oggi conservati sui loro sepolcri in questa città » (Storia Ecclesiastica II, 25, 5). E subito dopo riporta la testimonianza di Gaio, un presbitero romano del II secolo, il quale in uno scritto contro Proclo, capo della setta dei Catafrigi, dice a proposito dei luoghi dove furono deposte le sacre spoglie degli apostoli: « Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa » (Storia Ecclesiastica II, 25, 6-7). Nel suo scritto Tertulliano dice che Pietro fu crocifisso a Roma sotto la persecuzione di Nerone (Scorpiace XV). Nei suoi scritti, Ireneo vescovo di Lione (130-202) – discepolo di Policarpo vescovo di Smirne (69-155) che a sua volta fu discepolo dell'apostolo Giovanni (secondo quanto scrive Tertulliano, fu proprio l'apostolo a mettere il suo discepolo Policarpo a capo della Chiesa di Smirne, “La prescrizione contro gli eretici XXXII”) – afferma che la Chiesa di Roma è stata fondata dai gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, e che la sua tradizione apostolica è stata trasmessa per mezzo della successione dei suoi vescovi. E menziona la successione dei vescovi romani da Lino – che fu il primo successore dell'apostolo Pietro – a Eleuterio, affermando che con tale successione è stata conservata e trasmessa fedelmente dagli apostoli la stessa, unica vivifica fede (Contro le eresie III, 3, 2-3).
1, Dopo aver provato il primato di Pietro rispetto agli altri apostoli, ed il suo episcopato a Roma, città in cui subì il martirio, proviamo adesso la successione apostolica: La successione apostolica è la trasmissione della missione e dei poteri degli apostoli ai loro successori. Dopo che gli apostoli vennero scelti (Luca 6,13-16), Cristo trasmise loro la missione che egli aveva ricevuto dal Padre (Giovanni 17,18; 20,21). Li rivestì perciò della sua stessa autorità (Matteo 10,40) e diede loro l'incarico di predicare il vangelo a tutte le genti (Marco 16,15), e di amministrare i sacramenti (Matteo 18,18; 28,19; Luca 22,19; Giovanni 20,23). La missione che Cristo aveva affidato agli apostoli non doveva cessare con la morte di questi, ma deve continuare fino al suo ritorno visibile (Matteo 28,20). Perciò la missione e i poteri divini conferiti da Cristo agli apostoli, vengono trasmessi ai loro legittimi successori, i vescovi, e ai presbiteri loro collaboratori, per mezzo dell'imposizione delle mani (2Timoteo 1,6; 1Timoteo 4,14; 5,22; Atti 14,23; Tito 1,5), e cioè mediante il sacramento dell'ordine.
Verso la fine del I secolo, Clemente Romano – che fu un collaboratore degli apostoli (Filippesi 4,3) e terzo successore dell'apostolo Pietro sulla cattedra di Roma – scrisse una lettera indirizzata alla Chiesa di Corinto. Il motivo della composizione di questa lettera furono i disordini sorti in questa comunità, nella quale alcuni giovani membri si erano ribellati contro i presbiteri, che essi avevano destituito arbitrariamente. Perciò nella sua lettera Clemente richiama i Corinzi al ravvedimento e all'obbedienza ai presbiteri (Corinzi LVII, 1-2), minacciandoli di gravi sanzioni se non obbedito (Corinzi LIX, 1). Questa lettera di Clemente è una testimonianza di come già nel I secolo il vescovo di Roma avesse l'autorità di prendere disposizioni nei confronti di un altra Chiesa particolare, qui quella di Corinto. Eusebio ci fa sapere che l'avvertimento del vescovo di Roma fu accolto dai Corinzi e messo in pratica (Storia Ecclesiastica IV, 23, 11). Sempre Eusebio ci fa sapere che la lettera di Clemente fu molto stimata e letta pubblicamente in molte comunità cristiane (Storia Ecclesiastica III, 16). La lettera di Clemente afferma l'autorità dei vescovi sui fedeli e il primato della Chiesa di Roma sulle altre Chiese particolari. Nel II secolo, Ireneo vescovo di Lione afferma che la Chiesa di Roma è stata fondata dai gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, e che la sua tradizione apostolica è stata trasmessa per mezzo della successione dei suoi vescovi e che, con la Chiesa di Roma, in ragione della sua autorità superiore, deve accordarsi ogni altra Chiesa particolare, poiché in essa è conservata la tradizione apostolica (Contro le eresie III, 3, 2). E menziona così la successione dei vescovi romani, da Lino – che fu il primo successore dell'apostolo Pietro – a Eleuterio, il vescovo romano d'allora, affermando che con tale successione è stata conservata e trasmessa fedelmente dagli apostoli la stessa, unica vivifica fede (Contro le eresie III, 3, 3). Nella metà del III secolo, Dionisio (o Diogini) vescovo di Alessandria, che combatteva l'eresia sabelliana o patripassiana di alcuni presbiteri della Libia, fu accusato presso il suo omonimo e contemporaneo vescovo di Roma da alcuni presbiteri egiziani riguardo alcune imprecisioni dottrinali in materia trinitaria. Il vescovo di Alessandria, infatti, in contrasto con i patripassiani – i quali affermavano che non Gesù Cristo come persona distinta, ma il Padre stesso avesse subìto la passione (per i patrapassiani il Figlio e lo Spirito Santo non sono persone distinte, ma piuttosto modi di manifestarsi dell'unico Dio, il Padre) – accentuava tanto la distinzione tra Padre e Figlio fino a comprometterne l'unità. Perciò il vescovo di Roma fu invitato a giudicare tali imprecisioni, come autorità dottrinale più alta e sicura. Il vescovo di Alessandria si giustificò e riconobbe l'unità di essenza tra Padre e Figlio insegnata dalla Chiesa di Roma (De Sententia Dionysii). Anche questo episodio testimonia come il vescovo di Roma esercitasse già allora una certa autorità sulle altre Chiese particolari, qui riprendendo il vescovo di Alessandria. Vediamo come i presbiteri della Chiesa egiziana si fossero subito rivolti all'autorità del vescovo di Roma. Non manca inoltre l'accettazione da parte del vescovo di Alessandria riguardo la sentenza e la dottrina esposta dal vescovo Romano. Queste testimonianze sono anteriori al IV secolo, il che dimostra che la Chiesa cattolica romana e il papato non sono affatto invenzioni di Costantino come affermano alcuni ignoranti e i detrattori.
Come vedi Gesù conferì l'autorità sulla Sua Chiesa a S.Pietro, per mezzo della successione apostolica la Sua Chiesa è arrivata fino ai giorni nostri.