Sì, lo è. Un rapporto con la lingua scelta che a volte è di puro amore, altre di odio, altre ancora risponde a una precisa scelta politica ed etica.
Mi vengono in mente tre scrittori, tra i tanti: Cioran, la Kristóf e Aharon Appelfeld.
Il primo che definiva il francese la sua “camicia di forza” e ne parlava in termini così colmi di disprezzo da far trapelare un amore mortale; la seconda – che pure scelse il francese – che continuò a sentirsi per tutta la vita un’analfabeta (titolo anche di uno dei suoi scritti); e il terzo, che scrisse tutti i suoi libri in un ebraico imparato solo da adulto, dopo aver raggiunto Israele, scampato all’Olocausto (la famiglia era di lingua tedesca). Essersi appropriato di quella lingua fu per lui come ricostruirsi l’identità e la famiglia perduta. L’ebraico come casa.